di Luciano Eusebi, docente di diritto penale
fonte: http://www.adistaonline.it/index.php?op=articolo&id=43029&PHPSESSID=85ded5
1. Quale sicurezza?
Si configura l’altro come nemico appellandosi al bisogno di sicurezza, così da poterlo aggredire, o abbandonare, in nome della difesa nei suoi confronti. A un tale processo non da oggi vengono frequentemente affidate, dai singoli individui e dall’intera società, la salvaguardia dei livelli di benessere che si percepiscono connessi a una data condizione di vita, ma anche la risposta al bisogno personale e collettivo d’identità: bisogno che, quando non trova espressione attraverso stili comportamentali aventi fondamento morale, finisce per cercare surrogati del senso da attribuire alla vita in dinamiche di autoriconoscimento costruite sulla contrapposizione verso altri soggetti.
Eppure è assai più probabile che il pericolo vero per la sicurezza futura
della nostra società sia da ricondursi, piuttosto che agli outsider sociali oggi
sovente additati come nemici, proprio all’incapacità di creare condizioni di
reciproca fiducia, cioè di integrazione, tra le persone di ogni provenienza
culturale all’interno dei singoli Stati e, a livello planetario, tra i diversi
popoli.
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L’esperienza dovrebbe insegnare che, nel corso della storia, la continua produzione del nemico ha generato condizioni di persistente instabilità e che la stessa configurazione degli Stati come entità in reciproca competizione ha avuto per conseguenza, al di là degli assetti di volta in volta definiti, una sequela innumerevole di guerre. In tale quadro, la pace, il più delle volte, null’altro ha costituito se non un momento tattico nell’ambito di quella propensione a configgere che, hegelianamente, s’è intesa come tipica delle aggregazioni politiche, trascurando la disponibilità alla convivenza reperibile fra i soggetti più deboli. E forse non è un caso che la pace, oggi, appaia aver assunto contorni di stabilità solo all’interno di quelle aree in cui al paradigma del rapporto tra potenziali nemici si è sostituito, seppur in maniera imperfetta, quello inteso al riconoscimento dei diritti fondamentali di tutti i soggetti in esse presenti.
Del resto, un elemento di intrinseca debolezza per il nostro Paese, che dovrebbe sortire non poche preoccupazioni circa il futuro, è costituito dagli scarsi livelli di legalità in esso diffusi (nei rapporti con le istituzioni, nella prevenzione dei rischi, in genere rispetto ai vincoli di correttezza intersoggettiva). Dal che può evincersi come certi appelli alla tolleranza zero verso i soggetti a maggior disagio sociale non presuppongano affatto la disponibilità al rispetto incondizionato del diritto, bensì contribuiscano a rendere meno percepibili le contraddizioni riscontrabili nelle condotte di molti tra i soggetti socialmente integrati.
Beninteso: l’altro talora pone problemi seri, e in certi casi colpevolmente. Ma renderlo un nemico, e con lui l’intero contesto umano nel quale tali problemi maturano, non è un buon affare. Non risolve i presupposti di quei problemi e fornisce un alibi al moltiplicarsi delle condotte antisociali. Finché si penserà di rispondere a certe realtà negative, o anche semplicemente problematiche, attraverso atteggiamenti a loro volta negativi non si farà alcuna vera prevenzione. Tuttavia, una simile strada appare più semplice, perché non richiede alcuna seria progettazione. E può appagare, con ritorni immediati di consenso politico, ampi settori dell’opinione pubblica, cui non si rendono disponibili strumenti di lettura seri di realtà complesse. Si assiste, così, a un’inquietante delegittimazione di chi crede nelle strategie costruttive di non breve periodo, volte a promuovere l’integrazione sociale, ma anche condizioni che favoriscano lo sviluppo dei Paesi poveri e la pace. Quali risorse stiamo impiegando per l’intregrazione e per la pace? Chi ha il coraggio di porre questo problema politico? Il compendio della dottrina sociale sembra sempre più relegato nelle scrivanie dei soli cultori di teologia.
2. Quale giustizia?
Quando si parla di sicurezza bisogna rifare ordine circa le priorità. Bisogna ripartire dal cimitero dimenticato del canale di Sicilia, dal latte per i bambini dei campi nomadi di cui ha parlato il cardinale Tettamanzi, dalla memoria delle centinaia di migliaia di zingari inghiottiti nel silenzio anche postumo dei campi di sterminio. Non si deve dimenticare che la storia è sempre scritta dai sopravvissuti, e che solo Dio conosce il mistero del dolore di chi s’è visto associato alla sofferenza del Suo figlio in uno dei non pochi Darfur del mondo.
Si tratta, allora, di recuperare, innanzitutto, il prodotto più alto della cultura moderna, esito di inscindibili percorsi laici e religiosi: l’idea secondo cui la giustizia non è questione di reciprocità dei comportamenti, sebbene da millenni la nostra cultura abbia assimilato una tale prospettiva, ma è questione di riconoscimento dell’altro nella sua dignità, vale a dire come un “tu” che lo rende titolare del diritto a essere riguardato quale soggetto di cui si ha premura; ovvero quale soggetto il cui vivere o il cui morire non ci possono essere indifferenti, perché ne va della nostra stessa realizzazione esistenziale.
Se con giustizia s’intende la reciprocità degli atteggiamenti, ciò implica che il rapporto con l’altro presuppone un giudizio sulla sua realtà esistenziale, onde conformare a quel giudizio il nostro agire. Ma in una simile prospettiva è assai facile, come dimostra tutta l’esperienza umana, reperire nell’altro qualche profilo di effettiva o presunta negatività, che giustifichi una corrispondente condotta negativa nei suoi confronti.
Questa logica è superata dalla teorizzazione dei diritti dell’uomo. La sua forza sta nel fatto che essa svincola la titolarità di quei diritti da qualsiasi giudizio sulle condizioni esistenziali di un dato individuo. I diritti universali non dipendono da un’altrui valutazione delle sue capacità, delle sue qualità, dell’epoca di sviluppo della sua esistenza e nemmeno dalla sua appartenenza a uno specifico sistema giuridico. Dipendono solo dalla esistenza in vita: e ciò fonda il principio di uguaglianza quale elemento cardine della democrazia. Il che, tra l’altro, manifesta come l’insistenza ecclesiale sul riguardo dovuto alla vita umana dalla fecondazione alla morte naturale non rifletta impuntature confessionali, ma colga un nodo cardine nella costruzione del diritto moderno, strettamente connesso alle questioni sociali.
Se tutto ciò è vero, si pone oggi a monte del dibattito sulla sicurezza l’interrogativo circa la disponibilità a realizzare processi di effettiva globalizzazione nell’accesso al soddisfacimento dei diritti umani fondamentali, secondo dinamiche che possano ripetere a livello globale i percorsi che hanno condotto a costruire standard significativi di tutela all’interno dei Paesi più sviluppati.
Non è dunque giustizia autorizzarci ad agire in modo negativo verso le realtà umane ed esistenziali che ci fanno problema, abortendole, per così dire, rispetto all’orizzonte di quanto coinvolge il nostro sentirci responsabili. E proprio questa opzione di fondo si oppone alla configurabilità dell’altro, in qualsiasi condizione, come un nemico il cui destino possa non riguardarci.
Si tratta di un’opzione che riflette il senso profondo della giustizia - quale vero e proprio patrimonio culturale per l’intera società - nella stessa prospettiva cristiana. L’idea, cioè, secondo cui la giustizia di Dio non si esprime attraverso una condanna, la quale estromette il suo destinatario come un nemico, bensì nel fatto che “quando eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del figlio suo” (Rm 5, 10), vale a dire attraverso l’amore speso senza riserve dinanzi al male. Il colpevole stesso, dunque, non può essere considerato un nemico, perché la giustizia esige di esprimersi attraverso ciò che è radicalmente altro dal male, assumendo, solo in tal modo, potenzialità salvifica.
Del resto, già nell’Antico Testamento, per vari aspetti punto di possibile incontro delle religioni monoteistiche, la giustizia divina rivela costantemente la sua dinamica salvifica, quale chiamata a un percorso di liberazione rispetto al fallimento esperimentato - emblematica la figura di Caino - nel momento in cui il rifiuto del rapporto con l’altro e il suo annientamento come un nemico, lungi dal produrre nell’autore l’attesa dilatazione rispetto al limite ravvisato nell’altrui esistenza, lo hanno deprivato di un’occasione irripetibile per amare e, dunque, per la realizzazione della sua stessa vita.
3. Quale accoglienza?
La Scrittura stessa aiuta ad approcci equilibrati con i problemi derivanti dalle migrazioni. La drastica rivendicazione divina, essa pure veterotestamentaria, secondo cui “mia è tutta la terra!” (Es 19, 5) chiarifica che, se è necessario governare i flussi migratori, ciò non può avvenire sulla base di un’appartenenza incondizionata di principio del territorio ai cittadini dello Stato che su di esso governi, come se si trattasse di un domicilio inviolabile. È un’esigenza contingente tener conto dei confini tra gli Stati, come pure prendere atto della circostanza che non sarebbero economicamente e socialmente compatibili flussi migratori incontrollati: ma i confini non sono istituzioni di diritto divino. E anche dal punto di vista umano non si vede quale violazione di un bene costituzionale possa essere effettivamente – e non solo formalisticamente – ravvisato nel mero ingresso irregolare di un individuo in un altro Paese, così da legittimare, in tal caso, una sanzione di natura penale. Non c’è una proprietà esclusiva del territorio, e in genere delle risorse necessarie per un’esistenza dignitosa. C’è piuttosto la necessità di rapporti tra gli Stati intesi a creare, soprattutto attraverso effettive opportunità nei Paesi di provenienza, condizioni tali da non favorire migrazioni disordinate, con le connesse dinamiche di sfruttamento.
Dunque, il modo con cui agire nei confronti dell’immi-grato irregolare non potrà essere fondato sulla sua criminalizzazione (ed eventualmente su quella di coloro che gli forniscano assistenza umanitaria), tanto più ove si consideri il rischio di favorire, in tal modo, proprio una più facile utilizzazione di soggetti immigrati da parte della criminalità organizzata. Né sarebbe lecito confidare nella portata intimidativa di una minaccia penale (valutata minima, del resto, anche in sede di relazione al disegno di legge governativo in materia): sia in considerazione dei rischi ben più gravi di quelli inerenti a una condanna cui, comunque, molti immigrati si espongono per raggiungere il nostro Paese, sia in rapporto all’inevitabile alto grado di ineffettività della sanzione.
Al di là della qualifica giuridica dei provvedimenti utilizzati, si dovranno peraltro considerare i loro contenuti effettivi: soprattutto in rapporto all’incidenza sulla libertà personale e al destino delle persone che siano reinviate ai Paesi di provenienza. Non dimenticando che, finora, l’ingresso iniziale degli immigrati oggi regolarmente presenti nel nostro Paese, e necessari al suo sistema economico, è avvenuto quasi sempre de facto.
4. Quale prevenzione?
Circa il contrasto della criminalità è consueto dare per scontato il ricorso al modello di giustizia che già abbiamo sottoposto a critica: quello secondo cui è dalla minaccia di un mero danno applicato contro chi intenda commettere reati, e dalla sua effettiva applicazione nei confronti del condannato, che dovrebbero derivare alti tassi di prevenzione. Ancora una volta la prospettiva non richiede particolari elaborazioni: basterebbe contrapporre negativo a negativo per ottenere deterrenza e ripulire un determinato Paese dai soggetti pericolosi.
La prospettiva, e l’esempio, dell’espulsione dalla società, quale suo nemico, di chi abbia subìto una condanna penale costituirebbero pertanto lo strumento cardine della prevenzione. Senza particolare interesse per i chiaroscuri delle vicende personali o per le disomogenee opportunità difensive: la storia, come già si diceva, non la scrivono i vinti. E con un’allarmante propensione sempre maggiore a punire non solo per quanto commesso, ma anche facendo valere in malam partem determinate condizioni esistenziali (dunque, al ritorno verso quella che i penalisti definiscono colpa d’autore): come si evince dalla recentissima introduzione di un aumento di pena riferito alla condizione di immigrato non regolare di chi subisca una condanna, dal regime in molti modi aggravato, perfino circa l’accesso a strumenti risocializzativi, dell’agente recidivo o anche, in sede amministrativa, dalle sanzioni fortemente appesantite per mere ragioni di “sicurezza” nel confronti di determinati detentori di sostanze stupefacenti per uso personale.
Tutto questo trascura due considerazioni fondamentali. Innanzitutto il fatto che la prevenzione dei reati non dipende tanto dal fattore timore, sempre precario in rapporto all’incertezza delle sanzioni e all’intrinseca portata diseducativa delle dinamiche di semplice ritorsione del male, bensì dal fattore consenso, vale a dire dalla capacità dell’ordina-mento giuridico di tenere elevato il livello di rispetto delle norme per convinzione e, dunque, la loro autorevolezza. Il che esige sanzioni certamente effettive, ma orientate, secondo il dettato costituzionale, in senso risocializzativo: che di certo possono risultare onerose, ma che non sono da pensarsi a priori come un puro e semplice danno da applicarsi contro chi le subisca (realtà, quest’ultima, che comporta la tradizionale assenza di qualsiasi possibilità di dialogo sincero, e di rielaborazione dei fatti, in sede processuale). Nulla, in realtà, ristabilisce maggiormente l’autorevolezza di una norma trasgredita, delegittimando sul territorio l’attrattività dell’agire criminoso, rispetto alla presa di distanza da una precedente esperienza criminosa e dalla disponibilità a condotte riparatorie di chi abbia trasgredito la legge.
In secondo luogo la visione tradizionale della giustizia trascura l’importanza della prevenzione primaria, cioè dell’intervento di ordine educativo-culturale, politico-sociale e, ovviamente, legislativo sui fattori che fanno da sfondo, favorendole, alle attività criminose e dei quali sussiste un’innegabile corresponsabilità sociale. L’intervento su tali fattori ha certamente dei costi per la società e talora coinvolge interessi economici, ma è ineludibile ove si intenda davvero operare seriamente in senso preventivo (evitando che un ricorso simbolico al diritto penale finisca per coprire inerzie colpevoli).
Diversamente da quanto sovente si lascia percepire, poi, una prevenzione efficiente necessita di non essere incentrata, come tuttora accade per il sistema penale italiano, sul solo strumento sanzionatorio della pena detentiva, che in molti casi non segnati dal pericolo della reiterazione, altrimenti, di reati gravi – come ricordava papa Giovanni Paolo II nel messaggio per il Giubileo nelle carceri dell’anno 2000 – finisce per creare dal punto di vista preventivo “problemi maggiori di quelli che tenta di risolvere”. Sanzioni prescrittive, riparative, come pure strumenti di mediazione e di messa alla prova rivelano potenzialità di prevenzione della recidiva di gran lunga maggiori rispetto alla detenzione. E sotto altro profilo, unitamente a modalità interdittive, pecuniarie, di intervento patrimoniale nonché di coinvolgimento nella responsabilità delle persone giuridiche, si rivelano indispensabili per un contrasto, non solo dichiarato, delle diverse forme di criminalità economica: illeciti, questi ultimi, che l’attenzione incentrata sui fenomeni della criminalità comune più immediatamente percepibili dall’opinione pubblica porta ampiamente a trascurare.
In questo senso, l’elaborazione in materia sanzionatoria della Commissione per la riforma del codice penale che ha operato nella precedente legislatura sotto la presidenza dell’avv. Pisapia non dovrebbe essere lasciata cadere.
Del pari, andrà scongiurato, anche attraverso una corretta informazione, l’intento talora emergente volto a demolire il sistema delle “misure alternative”, inteso a permettere sulla base di determinati presupposti (peraltro già alquanto irrigiditi in questi anni) un progressivo reinserimento sociale di chi stia scontando una condanna a pena detentiva: dopo simili percorsi, infatti, i tassi di recidiva risultano enormemente inferiori rispetto a quelli consueti allorquando la pena inflitta e la durata della sua esecuzione coincidano; mentre il numero dei reati commessi durante l’applicazione delle misure alternative risulta statisticamente minimo.
Anche sul piano della prevenzione penale, dunque, emerge l’esigenza di una progettazione coinvolgente, che sappia rifuggire dalle logiche che ipotizzano di risolvere i problemi, o addirittura di creare identità sociale, identificando taluno, semplicemente, come nemico.
Un necessario ripensamento
Si tratta di domandarsi, davvero, quali investimenti siamo disposti a fare per l’integrazione culturale, per il supporto delle componenti sociali più deboli, per la pace, per il futuro di una società non conflittuale, per l’ascolto e la cooperazione tra le diverse tradizioni etniche. La sicurezza dipende molto più da quanto sapremo progettare che dagli arroccamenti difensivi. Non senza coraggio: una politica di valida integrazione richiede, per esempio, che la popolazione “italiana” sappia guardare con fiducia al futuro anche superando l’attuale caduta verticale dei tassi di natalità. Per cui dobbiamo saperci interrogare, a tal proposito, circa le carenze nelle politiche familiari e nello stesso aiuto alle donne in gravidanza (un documento, di convergenza pluralistica, pubblicato in materia a fine 2005 dal Comitato Nazionale per la Bioetica offre interessanti suggestioni). È solo un esempio di come l’attenzione alla realtà esistenziale dell’altro che è tra noi, dell’altro in difficoltà, perfino dell’altro che ha sbagliato induca a un costante ripensamento delle nostre leggi, perché sappiano rispondere alla sfida democratica di consentire la migliore realizzazione possibile della dignità umana.