No Profit No Grazie

L’altra faccia del No Profit raccontata dagli operatori

 

Il Coordinamento Operatori Sociali, nato due anni e mezzo fa, è costituito da assistenti domiciliari, educatori, soci e collaboratori, di varie cooperative sociali  e associazioni che gestiscono servizi pubblici a Roma.  Le circostanze raccontate in questo documento, frutto di esperienze e riflessioni condivise, sono reali e fanno parte delle tante segnalazioni pervenute al Coordinamento da operatori che preferiscono spesso restare in anonimato per timore di ritorsioni sul lavoro.

 

Dal “cattivo” lavoro al “cattivo” servizio…esternalizzato

1) Il ruolo di Comune e Municipi. Da una parte abbiamo una Pubblica Amministrazione che cerca di dare un’immagine positiva di sé attraverso l’uso sapiente dei media e sofisticate tecniche di comunicazione, con le quali nasconde la pochezza degli interventi, la bassa qualità, gli sprechi enormi di risorse e la volontà di arricchire vecchi e nuovi speculatori  che di “Sociale” hanno ben poco.

L’esternalizzazione dei servizi socio-educativi-assistenziali è oramai diventata un comodo strumento di deresponsabilizzazione rispetto ai bisogni dei cittadini, i quali sono sempre più in preda all’affarismo e a pratiche di scambio. Attraverso gli appalti si consolidano e ramificano interessi economici ed elettorali e si è riattivata nel lavoro appaltato la vecchia pratica delle raccomandazioni e assunzioni clientelari. Sarebbe giusto chiedersi quanto sia lecito il legame tra i servizi sociali dati in appalto e le  assunzioni nominative richieste alle imprese sociali da funzionari, dipendenti e politici dell’ente locale appaltante.

Ancora più grave è la tendenza dell’Amministrazione a potenziare la presenza del Volontariato, non come attività di solidarietà libera e gratuita, ma come attività a basso costo, sostitutiva dei servizi pubblici. Vedasi i protocolli d’intesa tra Centrali cooperative e Comune di Roma sull’utilizzo di obiettori di coscienza e del personale in servizio civile che, di fatto, vanno a colmare i vuoti d’organico.  Lo stesso Luigi Di Liegro, compianto Direttore della Caritas romana, aveva in passato lanciato l’allarme su questo rischio, esortando a riflettere sulle “molte ambiguità” esistenti in un dibattito in cui viene impropriamente ridotta la differenza che esiste fra volontariato e  lavoro sociale.

2) Le cooperative. Sul fronte contiguo troviamo la comunità illusoria delle cooperative e associazioni dove il vincolo di subordinazione dei rapporti di lavoro viene talvolta mascherato sotto le mentite spoglie del rapporto associativo nel quale si vorrebbero far scomparire le differenze tra i dirigenti e gli operatori. Una mistificazione che tende a scongiurare la pratica del conflitto pur in presenza di un grave sfruttamento retributivo e di condizioni di lavoro ingiuste e discriminatorie.

Nascono da questa ambiguità strumentale del rapporto tra soci/e e cooperativa certe amare rinunce a rivendicare i propri diritti sanciti dallo Statuto dei Lavoratori, essendosi diffusi luoghi comuni del tipo: “la coop. sei tu!, che fai? scioperi contro te stesso?”.

In queste condizioni si continuano, mancando di rispetto all’intelligenza dei cittadini/e-utenti e dei lavoratori/trici, a produrre protocolli, codici etici, carte dei servizi e certificazioni di qualità. E’ difficile accettare la buona fede di quelle/i dirigenti di cooperative che fingono di ignorare il nesso evidente tra il clima organizzativo dei rapporti di lavoro interni e la soddisfazione di chi è destinatario della prestazione.

Senza l’adesione consapevole delle persone, senza la valorizzazione del fattore umano e dei diritti di tutte le parti in causa nella relazione di aiuto, la qualità del lavoro e del servizio rimarranno una dichiarazione puramente virtuale e fraudolenta.

3) Gli operatori e operatrici. Procedendo nell’analisi dei soggetti protagonisti dei servizi, troviamo poi una selva di operatori e operatrici, sottopagate e precarie, rassegnate spesso ai cronici ritardi negli stipendi, prive di supporto formativo e psicologico, esclusi dall’accesso a notizie, private spesso da qualsiasi tutela della loro Salute e Sicurezza nei luoghi di lavoro. Essi/e fungono da parafulmine esclusivo, dato che si fanno carico di tutti i limiti strutturali di questa impostazione e quindi di tutti i problemi della persona assistita e della sua famiglia. Con la conseguenza di una vera e propria macina umana di lavoratori/trici impiegati, spesso soggetti a stress fisico e psichico e vittime della praticata consuetudine dell’ “Usa e Getta”.

4) Gli/le utenti. Assieme agli operatori e operatrici, ci sono le persone e le loro famiglie che usufruiscono dei servizi. Esse, dietro la prospettiva di una virtuale libertà di scelta nel nuovo aberrante mercato sociale, o attraverso bonus monetari, vengono oggi indotte a rinunciare per motivi economici  ai servizi individuali di prossimità in cambio di centri residenziali o semiresidenziali ghettizzanti dove si diminuisce in maniera insostenibile il numero degli operatori impiegati e qualificati (pensiamo, ad esempio, a centri diurni attuali convenzionati con le ASL che hanno un solo educatore e due assistenti di base ogni 15 o più utenti con handicap medio-grave). E’ anche così che viene tradita la finalità socio-educativa e/o riabilitativa.

La formazione. Chi l’ha vista?

Le dichiarazioni presentate dai/lle rappresentanti legali di cooperative e associazioni, finalizzate all’iscrizione nel Registro Unico dell’Accreditamento probabilmente sono diventate una banale formalità dal momento che nessuno sembra controllare la reale esistenza dei requisiti dichiarati. Non si spiegherebbe altrimenti la completa anarchia in fatto di formazione degli operatori/trici e di applicazione del CCNL.

Sarebbe previsto un minimo di ore di formazione ogni anno a favore dei propri operatori/trici. Ma quando? Ma dove? Fino ad oggi è prevalsa una tendenza chiara delle cooperative a non fare affatto formazione ai propri soci/e. Oppure capita che vengano applicati due pesi e due misure: una formazione continua, magari anche in località termali, per i gruppi dirigenti che pensano probabilmente alla carriera e al  proprio futuro occupazionale, mentre si riserva ai propri soci-lavoratori e lavoratrici una residuale attività di formazione, magari a base di insignificanti seminari sulla qualità. L’ovvia conseguenza è che, a differenza dei dirigenti, i soci-lavoratori e lavoratrici saranno destinati, per forza di cose, a subire per primi quei possibili tagli e riduzioni del servizio prodotti dal nuovo meccanismo concorrenziale di “mercato sociale” dovuto all’accreditamento e ai noti pacchetti di servizio o bonus monetari offerti agli utenti.

Il discorso della dequalificazione nei servizi alla persona  si esplicita meglio se si considera il mancato controllo negli appalti delle qualifiche richieste e dichiarate, l’introduzione di operatori senza titolo e delle badanti, la sostituzione nelle scuole di personale educativo per gli alunni disabili con operatori socio-assistenziali  e il sempre maggiore ricorso ad Associazioni di volontariato, obiettori di coscienza e volontari in Servizio civile.

 

La partecipazione e l’inclusione sociale. Chi l’ha viste?

Sfatiamo l’altra grossa bischerata pubblicitaria dell’Assessorato alle Politiche Sociali: la stesura “pseudopartecipata” del Piano Regolatore Sociale e dei Piani di Zona.

Si è parlato di seimila persone. Sarebbe interessante conoscere i numeri reali e il target di persone che avrebbero preso parte ai tavoli di zona, oppure sapere quanti operatori sociali hanno saputo dell’esistenza di questi tavoli.

Vale qui lo stesso discorso della formazione: Si dice di voler puntare alla qualità dei servizi e si vanta l’approvazione di un Piano Regolatore Sociale con i soggetti interessati ma poi vengono di fatto esclusi tutti quegli operatori e operatrici che lavorano quotidianamente con il disagio e che avrebbero potuto realmente dare un contributo prezioso sulla mappa dei bisogni della città. Non è un caso che l’esigenza maldestra di assegnare le risorse del fondo sociale alle solite organizzazioni No profit, addette ai lavori, viene spesso confusa con la risposta da dare ai bisogni reali dei cittadini. A ciò si aggiunge la prassi di mantenere in piedi servizi costosi e parassitari  senza una valutazione partecipata dell’impatto sociale e dell’efficacia. Uno degli infausti risultati è una crescita di “Poli della Disgrazia”: aggregazioni di Centri diurni e residenziali nelle lontane periferie (Campagna di Anguillara, Tenuta di Casaletto, Torre Spaccata, Laurentino 38…) dove viene accorpato in un grande calderone il variegato disagio sociale: dai minori a rischio, ai tossicodipendenti, dalla casa famiglia per l’handicap, allo sportello per la Salute mentale o per l’alcolismo ecc. ecc.

Non è un caso, a nostro avviso, che a Roma l’Eures (istituto di ricerca sociale) registri un aumento del 40% dei suicidi (anno 2002) nelle fasce sociali più deboli. Oppure che in questi pochi mesi del 2004 ci siano stati già 8 “omicidi di sopravvivenza” tra senza fissa dimora e persone emarginate.

A noi sembra che la politica prevalente delle Amministrazioni tenda verso il controllo sociale più che verso una politica di inclusione e di integrazione. Lo si è visto con l’istituzione della Sala Operativa Sociale e dei call center, senza dubbio utili ad arricchire la banca dati informatica, ma che lasciano carente l’offerta di strutture di accoglienza di primo e secondo livello, sovrapponendosi spesso ad interventi dei servizi territoriali. Lo si è visto anche in occasione degli sgomberi forzati di campi Rom, oppure con i progetti contro la mendicità infantile o nelle Case di riposo comunali dove si è preferito sperperare soldi in tanti appalti “spezzatino” piuttosto che internalizzare i servizi con un’azienda comunale.

 

Il Mobbing strategico e la legge 626/94

L’ultimo licenziamento è arrivato il 4 maggio scorso. Un’assistente domiciliare che lavorava presso una casa famiglia per disabili è stata licenziata in tronco dalla sua cooperativa con una telefonata, seguita da un telegramma.

Il Presidente di quella cooperativa è un consigliere comunale, membro della Commissione Politiche Sociali. Prima di quel licenziamento, c’erano state diverse dimissioni spontanee, una dopo l’altra. Non sappiamo se si tratti di un caso di “Mobbing strategico”.  Chissà se un giorno potremo contare su un monitoraggio dell’Osservatorio comunale del Lavoro .

Scientificamente, il “Mobbing strategico” (mobbing = accerchiamento) è un lucido disegno  portato avanti da alcune aziende che, con una serie progressiva di atti emarginanti, molestie morali e comportamenti lesivi della dignità del lavoratore ne ottengono l’allontanamento, spesso con la complicità di tutti i colleghi della persona mobbizzata. L’allarme viene dall’Agenzia Europea per la Salute e Sicurezza nei luoghi di lavoro. Il terziario è un terreno fertile dove il Mobbing sta diventando una piaga sociale a forte espansione.

La legge 626/94 non aveva previsto questo specifico aspetto della Salute nei luoghi di lavoro. E’ per questo motivo che una sentenza del 15 novembre 2001 della Corte di Giustizia Europea ha condannato l’Italia, in base alla direttiva Europea, ad inserire nella legge 626/94 i rischi derivanti dal clima organizzativo e dalle relazioni interpersonali, fonte di disagio e sofferenza e spesso di vere e proprie malattie professionali che oggi l’INAIL e le ASL hanno iniziato a riconoscere.

Nel mondo della cooperazione sociale romana, abbiamo motivi per ritenere che un certo rango dirigenziale, per mantenere per decenni la stessa posizione di potere nella gerarchia aziendale e mantenere l’impronta familistica e autoritaria, non solo abbia snaturato i principi stessi della cooperazione, impedendo la presa di coscienza dei lavoratori e la partecipazione attiva alle scelte, ma abbia anche triturato nel tempo tutti quei lavoratori che hanno tentato di dare il proprio contributo critico e personale, pur non in linea con il gruppo dominante.

Da qui deriva la dispersione di risorse umane e viene meno ogni prospettiva di qualità.

 

Il lavoro sociale come lavoro usurante.

La grossa lacuna legislativa a carico degli operatori sociali è il mancato inserimento del lavoro socio-educativo e assistenziale nella categoria dei lavori usuranti. Una proposta di legge presentata circa dieci anni fa che inseriva il lavoro sociale tra i lavori usuranti è rimasta lettera morta. Probabilmente, come in altri casi si aspetta che scoppi il bubbone sociale, con tutte le sue conseguenze in termini di costi umani e, soltanto dopo, affrontare il problema a livello politico.

 Ad aggravare questa situazione si aggiunge la superficialità di molti/e dirigenti di cooperativa con la quale  hanno predisposto il Documento di Valutazione del Rischio e  monitorato la salute e la sicurezza dei loro soci/e-lavoratori/trici e  co.co.co. nelle strutture assistenziali. Vedi, ad esempio, il grave incendio di gennaio scorso in una casa famiglia per disabili dove, senza le scale elevatrici dei vigili del fuoco sui balconi, avrebbe potuto verificarsi una tragedia.

Abbiamo appreso che esistono a Roma Case famiglia per disabili gravi dove si arriva a lavorare fino a oltre 220 ore mensili a circa 4 euro l’ora.  L’importo della busta cambia in base alla ore effettivamente svolte ma le ore del lavoratore trascritte in busta paga risultano sempre “normali” per eludere eventuali controlli.

Il paradosso è  che essi vengono indotti a sentire premiante e gratificante la possibilità di lavorare sopra le 200 ore per raggiungere una busta paga di circa mille euro.

I costi sociali sono gravissimi: oggi cominciamo ad avere assistenti domiciliari che a 35/40/ 45 anni hanno riduzioni della funzionalità della colonna e degli arti con le relative prescrizioni del medico del lavoro. Oppure stagnano situazioni di disagio e  di burn-out.

In alcune cooperative il fenomeno  comincia a preoccupare e sta venendo a galla, in altre si mantiene un sottobosco di situazioni nascoste e di infortuni mascherati da malattia.

Sarebbe interessante in proposito sapere quali siano state le iniziative di prevenzione e tutela dei lavoratori da parte dell’Osservatorio del Lavoro a due anni dalla sua istituzione.

 

Il Contratto collettivo e la cosiddetta  “legge Biagi”.

Crediamo sia vergognoso che, ad oltre due anni e mezzo dalla scadenza, non sia stato rinnovato il Contratto collettivo di lavoro degli operatori sociali. Altrettanto vergognoso è il balletto di responsabilità di questi giorni tra Centrali cooperative e “triplice” sindacale.

Nella preintesa per il rinnovo, circolata ufficiosamente in questi giorni, si scrive di un recupero di spettanze arretrate che, a fronte di un calcolo iniziale di 2500 euro una tantum

dovuta ai soci-lavoratori, sarebbero state ridotte a vantaggio delle Centrali cooperative, a sole 375 euro, da erogare in busta paga in 22 rate da 17,05 euro.

Non solo questo Contratto Collettivo è tra i peggiori in assoluto, in rapporto alla remunerazione e al tipo di lavoro, ma rimane ancora  impunemente disapplicato in una marea di situazioni lavorative. A ciò si aggiunge la dichiarata frenetica intenzione di alcuni/e dirigenti del Terzo Settore di voler inserire, nei regolamenti e nei rapporti di lavoro, la cosiddetta “Legge Biagi”. Riteniamo, per tutte le considerazioni sopra esposte, che la legge 30/2003, con le sue forme selvagge di precarizzazione dei rapporti di lavoro, non possa che devastare ulteriormente il sistema dei Servizi alla Persona..

La relazione di aiuto e gli standard di qualità non possono prescindere dall’adeguata qualificazione, valorizzazione e continuità lavorativa del personale impiegato nei servizi e dal benessere psicofisico di tutti i soggetti della relazione, utenti, reti familiari e operatori/trici sociali.

Per raggiungere gli obiettivi di qualità nei servizi erogati, ai quali gli enti locali sono tenuti da vincoli costituzionali e da direttive europee, noi crediamo che debbano essere fissate nei prospetti di gara e nei requisiti di accreditamento le regole che vietino in maniera assoluta e chiara l’utilizzo di personale precario, privo di garanzie e sia lasciato spazio agli unici due modelli contrattuali di rapporto di lavoro compatibili con un sistema di Qualità Sociale: quello di socio-lavoratore dipendente oppure quello di lavoro dipendente.

 

Da tutto il quadro sopra descritto noi riteniamo che i partiti che governano il Comune di Roma non possano sottrarsi alle loro gravi responsabilità, tanto più coloro che gestiscono le deleghe assessorili alle Politiche Sociali e Politiche del Lavoro.

E su queste basi che lanciamo una sfida, a partire dalla seguente piattaforma di lotta.

 

Le nostre proposte

•  Introduzione in tutti i Servizi socio-educativi e di assistenza alla persona di clausole  specifiche che escludano ogni possibilità di applicazione della legge 30/2003 al personale impiegato ;
• L’applicazione integrale del CCNL in tutti gli appalti gestiti da cooperative di tipo A e B, con aumenti salariali adeguati e il pagamento di tutti gli arretrati ;

•  Un Piano programmatico di formazione continua obbligatoria, di qualificazione e riqualificazione degli operatori e operatrici sociali;
•  Un sistema capillare ed efficace di controlli, ispezioni e sanzioni che incida da subito sulla qualità del lavoro, estirpando ogni illegalità e sfruttamento;
• Riconoscimento del lavoro sociale come “lavoro usurante”;
• La possibilità per tutti gli operatori e operatrici sociali di partecipare attivamente ai Piani sociali di zona attraverso una puntuale informazione e adeguate ore di permesso;

• Un programma di reinternalizzazioni dei servizi sociali e di assunzioni dirette del personale già impiegato.

 

 

 

 

Coordinamento Cittadino Operatori e operatrici Sociali di Roma

Via Appia Nuova 357 Roma (cocittos@virgilio.it /riunioni ogni giovedì ore 21.00)


Roma 28 maggio 2004